Diario da Nairobi - Il primo incontro
Quando proposi questo progetto, esordivo con degli interrogativi: perché proporre un laboratorio musicale in Africa, c’era forse bisogno di insegnare ad un pesce a nuotare o ad un uccello a volare? E poi, perché a dei bambini che, smarriti alla vita, sono emarginati dagli emarginati in una scala infernale che sembra non conoscere fondo? Le risposte, equamente ripartite tra coscienza ed intuito, venivano alla mente con grande immediatezza.
Le millenarie tradizioni musicali dell’africa sub-sahariana, che hanno insegnato al mondo l’enorme profondità del ritmo ed il suo potere taumaturgico, così come l’uso inconsapevole e perciò assai maturo, quasi zen, del corpo e delle sue infinite possibilità di percezione, in alcune specifiche condizioni, hanno creato degli orfani. In alcuni casi la realtà urbana degradata, ha spezzato quel filo che lega l’istinto alla pratica culturale e tutto fa sopire sotto un vivere quotidiano, che annichilisce l’aggregazione e mortifica la partecipazione a progetti di vita.
L’intuito, che è il frutto prevalente del nostro empirismo, mi ha sempre ricordato che ciò che sopisce si può svegliare e che nel caso di questi ragazzi, il sonno non doveva, per così dire, aver raggiunto la sua fase rem.
Inoltre trovavo pertinente, l’utilizzo di materiale di scarto per la costruzione degli strumenti dell’orchestra, sia per l’aspetto etico e metaforico, sia per la portata effettivamente liberatoria ed esplorativa che una scelta in tal senso mi concedeva. Raccontai che, così come ogni oggetto ha una sua forma arcaica, anche il tamburo se spogliato degli orpelli culturali, accumulati dalla stratificazione del tempo, poteva tornare a rappresentare uno strumento nudo, cioè scevro dai vincoli e dai rimandi d’obbligo che non potevano che intralciare il nostro percorso di ri-scoperta.
Dare valore a ciò che è considerato scarto, grattare sotto la ruggine del metallo, esplorare secondo le regole della vibrazione e della risonanza le infinite sonorità degli oggetti d’uso comune, non ha rappresentato per me alcuna supponente sfida, come potrebbe apparire, bensì una risorsa indispensabile e probabilmente irrinunciabile, che rende l’intero progetto coerente con i suoi intenti.
Creando un laboratorio musicale permanente, all’interno del più ampio progetto dell’AMREF, mi ripropongo di attrarre, motivare e valorizzare i ragazzi, sia nella loro individualità, sia come membri di una comunità, dando ampio spazio alle funzioni aggregative, di gioco e disciplina, della musica d’insieme. Pertanto gli obiettivi musicali per il breve/medio periodo sono: la costruzione di un gruppo coeso e motivato, la fabbricazione di strumenti musicali con materiale povero, l’apprendimento di alcune tecniche esecutive, lo sviluppo della percezione ritmica e melodica, la capacità di eseguire specifiche parti, l’interazione di queste parti e l’uso consapevole del timbro, del tempo e delle dinamiche. Per il lungo periodo: l’apprendimento delle basi della scrittura/lettura della musica, la realizzazione di un repertorio di brani, la produzione di uno spettacolo musicale.
Dopo vari contatti propositivi con la Dulcimer Fondation pour la Musique di Ginevra, che ha deciso di finanziare il progetto, e con Amref, cui è stato offerto, sono stato invitato ad Aprile a Nairobi per conoscere i ragazzi, gli operatori e le strutture disponibili.
Nonostante questo primo viaggio fosse di tipo esplorativo e non già direttamente operativo, fin dal primo momento, ho avuto la precisa sensazione che la strada intrapresa fosse quella giusta.
Dopo aver raccolto alcuni bidoni abbandonati e costruito dei rudimentali battenti con dei rami, ho verificato tra lo stupore mio, dei ragazzi e di tutti gli operatori, quanta e quale energia si sia scatenata nel percuoterli ed esplorarli timbricamente. La meravigliosa quanto acerba jam session che n’è scaturita, ha suscitato diffusi entusiasmi, confermandomi immediatamente quanto appropriata fosse l’idea del riciclo sperimentale di materiale di scarto per la costruzione dell’organico strumentale.
Questi ragazzi, cui ho proposto per cominciare una serie di giochi musicali utilizzando il ritmo e la voce, hanno bruciato tutte le tappe di una consueta gradualità. La sensazione è stata quella che, pur non avendo mai suonato un tamburo o più in generale vissuto esperienze di musica d’insieme, ognuno di loro avesse già dentro tutti gli elementi, sebbene inespressi, necessari per suonare in un ensemble. Alternando disciplina a gioco, sperimentazione a pratiche consolidate, ho indicato loro la via al controllo del suono, delle dinamiche, del tempo e dell’interazione tra le parti. In sostanza ho “ricordato” loro, la gioia del gioco della musica, la sua forza espressiva e liberatrice ed al tempo stesso d’aggregazione. Basta vederli ballare, questi ragazzi, per capire come ogni ritmo già risuona nei loro corpi; come già sappiano tutto, senza sapere. Il loro entusiasmo e la loro dedizione mi hanno commosso. Sentivo di risvegliare in loro qualcosa d’atavico e potentissimo. Ogni giorno, imparavo dal loro imparare, rimanendo meravigliato nel constatare i progressi maturati. Per quel che durava la loro concentrazione, in alcuni casi moltissimo in altri molto meno, il loro corpo, solidale alla loro mente, abbatteva la proiezione temporale, creando un’iper-presente che significa essere e non rappresentarsi.
Un giorno arrivando alla casa/teatro sento da lontano i tamburi ed il canto che ho insegnato loro. La distanza crea un bellissimo effetto. Sembra un gruppo tradizionale alle prese con qualche rito da officiare. I ragazzi hanno portato tutti i tamburi nel giardino e sembra che non aspettino che noi. Mi sento felice, come dopo aver dato acqua ad una pianta assetata.
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